I Cavalieri siciliani dell’Antistato
Piccola antologia sulla genesi della “zona grigia” eversiva
a cura di Riccardo Lenzi
Per chi suona la campana. «Credo che sarà molto importante approfondire la vicenda del finanziamento della P2 alla strage di Bologna. Credo che dopo Bologna dovremo riprendere in mano il nostro racconto: abbiamo una cornice, presto anche il quadro in sé sarà ancora più completo, ci permetterà uno sguardo più allargato». Così Sandra Bonsanti, nel libro “Colpevoli. Gelli, Andreotti e la P2 visti da vicino”, invita chi legge – e forse anche chi, per mestiere, scrive – a predisporsi allo sforzo mentale che gli sviluppi giudiziari in corso renderanno necessario, doveroso: fare i conti con il primo caso di accertamento storico-giudiziario dell’identità dei mandanti (Gelli, Ortolani, D’Amato, Tedeschi) di una strage politica e dei massicci flussi di denaro che hanno finanziato l’organizzazione (febbraio 1979) e l’esecuzione (agosto 1980) del più grave attentato di matrice politica (nera) avvenuto in Europa in tempo di pace. Non ci sono più alibi, siamo vicini a una svolta che molti, quasi tutti, credevano ormai impossibile: una nuova generazione di storici e studiosi sta per essere messa nelle condizioni di rielaborare e divulgare aspetti cruciali della storia nazionale degli ultimi 80 anni, che hanno oggettivamente e profondamente condizionato l’evoluzione politica, culturale e civile del nostro Paese. Dai rapporti di potere transoceanici intessuti (dalla Sicilia al Nord Est) tra il 1943 e il 1945, alla strage di Portella della Ginestra; dagli attentati degli anni ’60 in Alto Adige, ai primi tentativi di golpe militare (con relative schedature di cittadini sequestrabili); da Piazza Fontana al primo “golpe” effettivamente riuscito (via Fani, 16 marzo 1978); da Bologna al Rapido 904 (1984); dai tre giovani carabinieri massacrati al Pilastro (1991), alla strage “accademica” di via dei Georgofili (1993); dai proiettili contro Massimo D’Antona (1999) a quelli contro Marco Biagi (2002). Fino ad arrivare a comprendere come sia possibile che ancora oggi, mentre la magistratura fa il suo lavoro, alcuni cittadini viventi continuino (questo dice una sentenza di primo grado) a depistare le indagini, ostinandosi ad ostacolare l’accertamento di una verità che, evidentemente, infastidisce gli “eredi” di quel sistema di potere, in gran parte impunito, che il tempo e l’impegno di pochi ostinati indagatori hanno portato alla luce, strappandolo all’oblio e alle mani di “impistatori” che per anni si sono cimentati con le più svariate ipotesi, accomunate da un unico obiettivo: allontanare la responsabilità della strage di Bologna dall’Italia e dall’estrema destra. È uno dei pochi obiettivi che gli eversori anticostituzionali non hanno raggiunto: oggi sappiamo, tutti dovrebbero sapere, che la strategia della tensione non inizia con Piazza Fontana e non termina con la strage sul treno Italicus (1974). La metodologia (condizionare gli eventi politici attraverso il terrore e il ricatto) sperimentata negli anni ’60 e ’70 prosegue grazie agli stessi protagonisti di prima – coadiuvati da nuovi discepoli e da alcuni uomini cerniera, come Gilberto Cavallini – almeno fino agli anni ’90, quando la guerra fredda è ormai finita, ma la guerra della parte sana dello Stato contro mafia, P2 e corruzione non è ancora stata persa. Poi è successo che… hanno vinto loro. Ha vinto la forza del ricatto dei padri del “piano di rinascita democratica” e dei loro eredi; novelli anticomunisti senza comunismo. Ha perso l’Italia perbene. Oggi, però, possiamo finalmente iniziare a comprendere i “perché” che mancavano (a cosa sono servite le stragi) e avere una chiave di lettura in grado di aiutarci a fare luce su molti crimini politici rimasti parzialmente irrisolti e/o totalmente impuniti (l’Italicus, per esempio).
Siamo in attesa di poter finalmente leggere le motivazioni della sentenza di primo grado su mandanti e complici della strage alla stazione di Bologna (emessa lo scorso 6 aprile, ha condannato per la strage Paolo Bellini, “il quinto uomo”, e altri imputati di depistaggi e reticenze). Siamo in attesa dell’avvio del processo di appello a Gilberto Cavallini, il terrorista nero a cavallo tra Ordine Nuovo e i Nar, anch’egli condannato per concorso in strage il 9 gennaio del 2020. Siamo anche in attesa che gli organi di informazione nazionali si degnino di dare attenzione ai fatti accertati in questi due processi e al quadro di responsabilità politico-criminogene che è emerso nelle varie udienze. Un processo finora oggettivamente silenziato dai mass media (fanno eccezione Report, l’Espresso, il Fatto e poco altro). In attesa di capire in che misura la cittadinanza e la classe dirigente di questo Paese vorranno/potranno fare i conti con l’immagine che questo grande specchio, non più opaco, restituisce della biografia nazionale e di alcuni suoi protagonisti. In attesa di tutto ciò, vale forse la pena dedicare qualche minuto del nostro tempo a prendere confidenza con alcuni personaggi meno noti (ma non “minori”), anch’essi deceduti, che a lungo hanno animato la stagione della coabitazione tra chi ha tentato di attuare gradualmente il “programma politico” contenuto nella Costituzione, e chi viceversa ha lavorato parallelamente per demolirne l’impianto egualitario e disinnescarne le spinte riformatrici; spinte che negli anni Settanta, nonostante la violenza diffusa e i ricatti politici, stavano mettendo radici: statuto dei lavoratori, riforma della sanità, riforma del diritto di famiglia, referendum sul divorzio, ecc.
Partiamo da un paio di brevi passaggi delle motivazioni della sentenza Cavallini, redatte dal magistrato Michele Leoni.
«Il 30 marzo 1989 Volo [Alberto Stefano, estremista di destra palermitano, morto nel 2020] riferì anche che nell’estate del 1980 Mangiameli [Francesco detto “Ciccio”, esponente siciliano dell’organizzazione neofascista Terza Posizione, contigua ai Nar] gli parlò di un ulteriore tentativo di far evadere il Concutelli (…) Mangiameli gli aveva anche chiesto se gli interessava entrare a far parte di un’associazione segreta che si ispirava ai principi dei Templari e del Santo Graal, del cattolicesimo, vicina ai Provisionals dell’IRA. Ciò sarebbe stato possibile attraverso Gaspare Cannizzo, che egli (Volo) aveva conosciuto a Tre Fontane nel luglio 1980. (…) La Amico [moglie di Mangiameli] ha riferito che [Cannizzo] era un funzionario della Regione Sicilia, da tempo amico di suo marito, che pubblicava una rivista dal nome “Le Vie della Tradizione”. Dopo la morte del marito [ucciso dai Nar il 9 settembre 1980], ella mantenne rapporti continui con la famiglia Cannizzo. Sia suo marito che Cannizzo appartenevano all’Ordine dei Martinisti. Mangiameli, inoltre, distribuiva i testi delle “Edizioni Europa”, che facevano capo all’onorevole Pino Rauti. A Tre Fontane Mangiameli presentò Fioravanti e Mambro ai coniugi Cannizzo come ‘Riccardo’ e ‘Marta’».
«Che Mangiameli e Cannizzo fossero strettamente legati per le medesime “obbedienze” lo ha confermato la perizia [del 2010] dei consulenti [della Procura di Brescia] De Lutiis e Amendola: In seguito all’acquisizione da parte della commissione antimafia delle schede anagrafiche degli iscritti alle logge di via Roma 391 a Palermo (Gran loggia d’Italia di piazza del Gesù, alias Centro Sociologico Italiano) è stato possibile verificare che Gaspare Cannizzo vi risultava iscritto. L’ordine Martinista al quale erano affiliati Mangiameli e Cannizzo è strettamente collegato con l’ordine templare cui erano affiliati molti degli iscritti alle logge trapanesi di Giovanni Grimaudo, aderenti all’obbedienza di Mandalari (nata con l’aiuto e il riconoscimento di Alliata di Montereale). (…) Come indicato nella perizia, supervisore di logge massoniche e ordini templari in Sicilia era il principe piduista Giovanni Francesco Alliata di Montereale [detto Gianfranco]. Era stato uno di coloro che sottoscrissero il ricorso giudiziario contro la proclamazione della Repubblica italiana, e fu indicato da Gaspare Pisciotta quale mandante della strage contro i lavoratori a Portella della Ginestra, avvenuta il 1° maggio 1947. Fiore dell’aristocrazia nera, il principe Alliata era ai vertici mondiali della massoneria di rito scozzese. A lui e a Pino Mandalari [il “commercialista” di Totò Riina] era stato affidato il compito di unificare le varie logge siciliane, appoggiando il progetto di Michele Sindona e in parallelo quello di Gelli su scala nazionale. (…) Va ricordato che nello stesso periodo [luglio 1980] era in Sicilia, a Taormina, il neofascista Sergio Picciafuoco [morto in casa nel marzo 2022, due mesi prima era stato protagonista di un drammatico confronto in aula con l’imputato Paolo Bellini], presente poi alla stazione di Bologna al momento dell’esplosione, dove utilizzò lo stesso falso cognome già usato dall’amico di Mangiameli, Alberto Volo». [cit. “Stragi e mandanti” di Paolo Bolognesi e Roberto Scardova, 2012]
Alla figura di Alliata di Montereale – coinvolto, uscendone indenne, nelle indagini sui golpisti della Rosa dei Venti (1973-74) – l’ex magistrato Giovanni Tamburino e la studiosa Piera Amendola hanno recentemente dedicato due saggi preziosi: “Dietro tutte le trame” (Donzelli) e “Padri e padrini delle logge invisibili” (Castelvecchi). Nei primi anni ’80 anche la Commissione P2 si era interessata di lui.
«La relazione finale della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla Loggia P2 evidenzia come i particolari legami tra la Massoneria americana e quella di Palazzo Giustiniani siano stati stabiliti per il tramite di Frank Gigliotti, “già agente della sezione italiana dell’Oss, e quindi agente della Cia”. È attraverso Gigliotti che il Grande Oriente d’Italia ottiene il primo riconoscimento da parte della Massoneria della Circoscrizione Nord degli Usa, ed è ancora Gigliotti che si adopera affinché il palazzo Giustiniani, confiscato durante il fascismo, ritorni al Grande Oriente. (… ) è anche collegato al “cerchio della mafia” ed è entrato nei servizi strategici americani durante lo sbarco alleato in Sicilia. (…) Gigliotti è mosso dal più radicale indirizzo antisocialista e anticomunista anche quando impone alla Massoneria italiana l’unificazione con la Loggia degli Alam del principe siciliano Giovanni Alliata di Montereale come una delle condizioni per ottenere la restituzione del palazzo Giustiniani e il “riconoscimento” della Massoneria americana. (…) L’attività di Gigliotti in Italia sembra concludersi con una “coincidenza” rilevata dalla Commissione: “La comparsa di Gelli sulla scena quando Gigliotti scompare”.» [cit. “Trame atlantiche” di Sergio Flamigni, 1996]
Tra i principali estensori del ‘Piano di rinascita democratica’ della P2 ci fu un altro notabile palermitano, attivo all’interno delle massime Istituzioni italiane fin dalla genesi della Repubblica: Francesco Cosentino, classe 1922, passato a miglior vita nel 1985 (proprio quando la Commissione P2 aveva da poco finito il suo lavoro d’inchiesta).
«È il 27 dicembre 1947 e il primo capo dello Stato italiano, Enrico De Nicola, firma a Palazzo Giustiniani [sic!] la Costituzione italiana. La sua testa bianca è china sul documento che sancisce e regola la libertà del popolo italiano. In piedi lo osserva Alcide De Gasperi, il padre della patria che fu l’anima della nostra ricostruzione. Fra i due, in piedi, un giovane di 25 anni tiene in mano una cartelletta marroncina. Dentro c’è il testo della nostra Carta. Quel giovane si chiama Francesco Cosentino. È il momento più solenne e sacro della nascita della nostra Repubblica. Quell’immagine finisce nei libri di storia ed è conservata dentro di noi, strettamente connessa all’idea stessa di Costituzione. (…) Possiamo sorridere, oggi, del fatto che persino il ruolo importantissimo di segretario generale della Camera dei deputati fu in qualche modo trasmesso, “ereditato” di padre in figlio… Eppure a quel tempo nessuno si scandalizzò che, mentre Ubaldo ricopriva ancora quel ruolo, il figlio Francesco fosse già anche lui nei ruoli della Camera, consulente parlamentare di Luigi Einaudi e di Giovanni Gronchi, rispettivamente secondo e terzo presidente della Repubblica italiana. (…) Nel 1962 Francesco Cosentino diventò segretario generale di Montecitorio. (…) Nulla allora faceva prevedere che dieci anni più tardi il giovane depositario del testo originario della Costituzione sarebbe stato a fianco di Licio Gelli, ricoprendo un ruolo dirigenziale nella loggia segreta. (…) La scoperta della P2, e del ruolo che in essa aveva rivestito, non fu l’unico incidente in cui incappò l’altissimo funzionario dello Stato. Cosentino finì nei guai nel 1976 durante lo scandalo Lockheed quando venne a galla il grande giro di mazzette che la ditta americana pagava per vendere agli italiani i suoi Hercules C-130. Tra le carte arrivate in parlamento alla commissione d’inchiesta fu trovato un assegno intestato a Cosentino e firmato dal presidente di Finmeccanica, Camillo Crociani, che nel frattempo era fuggito in Messico. Il presidente della Camera era Sandro Pertini, il quale invitò Cosentino a spiegarsi davanti all’ufficio di presidenza di Montecitorio e lì, con una votazione a maggioranza, fu sollevato dall’incarico. (…) Quando Cosentino divenne presidente della Compagnia italiana grandi alberghi (Ciga Hotels), che in quegli anni faceva parte del circuito di Michele Sindona, fu proprio lui, l’amico Francesco, a consegnare a Gelli le chiavi della suite 126 e 127, il famoso appartamento nell’hotel Excelsior dove avvenivano le iniziazioni alla P2 e gli incontri più riservati del Venerabile con i politici romani. “Una suite con due uscite indipendenti” proprio come Gelli aveva preteso». [cit. “Il gioco grande del potere” di Sandra Bonsanti, 2013]