Rom e Sinti in Italia
La ‘questione rom’ in Italia, tra ieri e oggi
Dipartimento di Economia Società Politica (DESP)
Università degli studi di Urbino Carlo Bo
mail: gabriele.roccheggiani@uniurb.it
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Premessa
Ciò che ha mosso le mie ricerche sulla condizione passata e presente dei rom e dei sinti in Italia è la constatazione del permanere immutato di una precisa definizione pubblica di ogni fenomeno che riguarda tale minoranza: i ‘nomadi’ rappresentano una questione sociale altamente problematica.
Non faccio riferimento solamente alle definizioni date dai mass media, quanto al linguaggio ed alle prassi politico-istituzionali. Quindi: perché da decenni la presenza di tali gruppi sociali pone una ‘questione’ (nel senso del ‘problema’, se non di un’ ’emergenza)’, al nostro apparato politico (ed anche al sistema giuridico)?
Il mio lavoro non ha riguardato quindi lo studio di quel ‘mondo di mondi’ che è la cultura e la società dei rom e dei sinti. Piuttosto, si è trattato di un’analisi su ‘noi stessi’ italiani, sul nostro modo di simbolizzare, categorizzare e gestire politicamente la presenza plurisecolare di migliaia di persone definite ‘zingari’ o ‘nomadi’.
Proprio quest’ultima coppia di denominazioni costituisce un ulteriore asse critico che ha attraversato l’intero lavoro. Parafrasando il titolo di un articolo di Leonardo Piasere (Stranieri “e” Nomadi) ho voluto infatti problematizzare quella particolare simbiosi semantica riassumibile nell’espressione ‘zingari e nomadi’
In altre parole, adottando un approccio metodologico debitore delle analisi di Michel Foucault, ciò che in generale ho approfondito è l’interrelazione tra principî normativi dell’azione pubblica ed i saperi scientifici (nel loro ruolo di agenzie di labelling) nel costruire ed articolare la definizione dello ‘zingaro e nomade’.
Pur nell’inevitabile parzialità di una ricerca, oltretutto documentale e non ‘sul campo’, il vedere come tale identità sia stata ed è formata e trasformata all’interno delle politiche pubbliche ha fornito l’ipotesi ed un’ulteriore specificazione dell’interrogativo di fondo: in che modo la costruzione e relativa traduzione politica dell’etichetta ‘zingaro-nomade’ ha contribuito alla persistenza della ‘nostra’ permanente categorizzazione di tale minoranza come ‘problema sociale’?
Un interrogativo persistente sin nel più recente presente, nello specifico dall’ ’emergenza nomadi’ (2008-2011), sintetizzabile come un’azione politica fatta di sgomberi ed espulsioni.
Il macro-problema del presente è proprio quello della recidività della condizione di marginalità avanzata delle comunità rom e sinti in Italia, nel contesto generale del reiterato utilizzo residuale diegli strumenti di azione pubblica, di fatto ridotti allo sgombero ed all’appronta-mento di spazi transitorii-d’urgenza. La reiterazione di una simile penuria strumentale ha portato negli anni all’emergenza di quella che appare una profonda impasse politica, sociale e culturale, o meglio un doppio vincolo apparentemente insolubile: da una parte, l”incollocabilità’ di gran parte dei rom e sinti, espulsi e/o forzati ad un’incessante ricollocazione nello spazio pubblico. Senza dimenticare, in tale quadro, le manifestazioni di intolleranza, se non le esplosioni di aperta xenofobia. D’altro canto si articola in maniera sempre più problematica – e probabilmente anche isolata – il pensiero e la prassi politica dell’inclusione, la quale trova non solo i canonici intralci e le consuete problematiche negli ambiti dell’inserimento lavorativo o dell’educazione scolastica, ma vede un’urgenza probabilmente ancora più acuta nella trasformazione dell’annosa questione genericamente definibile dell”insediamento urbano. Una simile condizione è ulteriormente reiterata ed esasperata dalla recente categorizzazione d’urgenza-emergenza, da intendersi come securizzazione della condizione sociale di precarietà dei rom migranti e sua incipiente penaliz-zazione: di fatto, un’esclusione monitorata. Ad essa si correla la questione dell’inclusione separata e categorizzata come ‘problematica’, implicante una costante ‘tutela’.
Ecco allora in che senso appare centrale l’analisi della costruzione della ‘veridizione’ e legittimazione del ‘nomadismo zingaro’: in quanto processo capace di rendere conto di una ‘volontà di verità’ in stretta relazione con il potere politico. In altre parole, l’etichettamento scientifico-culturale che legittima il concetto di ‘zingaro-nomade’ (definizione etnica e diacronica) concorre in maniera decisiva a definire principii e linee-guida delle politiche pubbliche nei confronti dei rom e dei sinti.
Tale ‘regime di verità’ ha di fatto attraversato intere epoche: quello che sostengo è che vi sia infatti una complementarità, o meglio una ‘piega interna’ nel passaggio dal frame politico primo- novecentesco a quello della seconda parte del XX secolo.
Vale a dire che tra il pre ed il post-’45 si assiste sì ad una profonda revisione dei princpii di azione pubblica (dal paradigma gestionale della pericolosità sociale e della rieducazione – sino all’estremo del concentramento – a quello della tutela e dell’urgenza-emergenza) ma ciò appare un’inversione di polarità del medesimo ambivalente ordine del discorso e regime di verità.
In altri termini, riflettere sulla questione politico-sociale dei rom e dei sinti in Italia oggi, 70 anni dopo le persecuzioni ed il concentramento, significa anche avere il coraggio di discutere anche sulle contraddizioni politico-culturali aperte da decenni, se non sulle continuità che permangono rispetto all’epoca pre-bellica. Del resto, far fronte all’irrisolto è il compito di una memoria pienamente responsabile, capace di non ridursi a mero ‘oggetto ricordo’.
Di seguito elenco alcuni frammenti di questa memoria.
Nomadismo, vagabondaggio ed oziosità
Il quadro della definizione e gestione giuridico–punitiva del nomadismo in Italia non è di certo questione esclusivamente legata al contemporaneo, in quanto affonda le proprie radici in rappresentazioni culturali e codificazioni normative che risalgono almeno al XVI secolo (si veda ad esempio le serie di ‘bandi’ antizingari promulgati dalla Repubblica di Venezia).
Ad ogni modo il quadro generale che emerge a partire dalla strutturazione normativa tardo-ottocentesca è utile a comprendere quanto avverrà nei decenni successivi, come è utile anche a porre interrogativi critici sulle attuali dinamiche di gestione politica e sociale dell’alterità e della devianza rom e sinta nel nostro paese. L’assunto fondamentale da cui partire è un dato di fatto storico-giuridico: la voce ‘zingaro’ è presa costantemente in considerazione all’interno della più generica categoria del ‘vagabondo’. Facendo riferimento al Dizionario di Pubblica Sicurezza del 1865, questo precisa che gli zingari sono “compresi tra i vagabondi contemplati dall’articolo 436, n.3 del codice penale”. L’art. 436 definisce in generale il vagabondaggio come un delitto e qualifica come vagabondi:
1.coloro i quali non hanno né domicilio certo, né mezzi di sussistenza e non esercitano abitualmente un mestiere od una professione. 2. coloro che vagano da un luogo all’altro effettuando l’esercizio di una professione o di un mestiere, ma insufficienti per sé a procurare la propria sussistenza. 3. coloro che fanno il mestiere di indovinare, pronosticare e spiegar sogni per ritrarre guadagno dall’altrui credulità.
Oltre le disposizioni contenute nel codice penale e nella legge di S.P., cui vanno soggetti i vagabondi, debbonsi sempre considerare questi come persone sospette, e sono perciò loro applicabili le disposizioni del codice e della legge stessa stabilite contro questa categoria di persone.
Gli ‘zingari’ rientrano dunque nella fattispecie degli ‘indovini’, vagabondi professionali che al contempo non esercitano una vera e propria professione, quanto un’attività precaria, di certo insufficiente al loro sostentamento. Il vagabondaggio è poi associato all’ozio: gli oziosi, definiti dall’art.436 del codice penale unitario, sono coloro che, sani e robusti e senza sufficienti mezzi di sussistenza, vivono senza esercitare professione o darsi a stabile lavoro. Queste erano le disposizioni del Codice Sardo che seguivano l’art.270 del Codice penale francese. Una svolta in tal senso viene attuata dal Codice Zanardelli (1889) che soppresse il reato di vagabondaggio, e preferì considerarlo una pericolosità meramente sociale e non criminale, assieme al nomadismo ad esso associato. Di conseguenza zingari e vagabondi erano affidati all’opera di prevenzione dell’autorità di Pubblica sicurezza.
Tale è il quadro giuridico di riferimento sino alla fine del XIX secolo, nella sua inequivoca definizione. Nel complesso, però, la figura dello ‘zingaro’ vivrà un’ambigua definizione ed applicazione normativa, oscillando nei decenni successivi quale pericolosità sociale per così dire ‘al limite’ con quella criminale. In altri termini, il nomade è socialmente pericoloso in quanto manifesta una forte tendenza alla devianza criminale. Ciò appare anche l’evidente riflesso di una saldatura parziale rispetto alla tipologia del vagabondo. Di fatto, lo ‘zingaro’ rimane sempre un interrogativo socio-identitario e dunque di difficile collocazione e gestione normativa, ‘costringendo’ non tanto il legislatore quanto la sfera del sapere scientifico– giuridico ed i correlati detentori delle tecnologie di controllo e di giudizio (polizia, tribunali ed apparati ad esso connessi) ad un incessante ricerca di definizione per una equa e misurata prevenzione e punibilità della pericolosità nomade.
Ed è proprio la natura e la definizione della ‘tendenza deviante’ zingara a concentrare ed aprire un percorso scientifico–giuridico significativamente oscillante tra una prospettiva di devianza criminale ed una di devianza sociale, tra approcci deterministici–positivisti e culturalistici, i quali vedono coinvolti figure di spicco del panorama intellettuale e politico italiano dell’epoca: Cesare Lombroso, Napoleone Colajanni, Eugenio Florian, e in seguito Nicola Pende, Renato Semizzi. Oltre alla codificazione ufficiale del Codice Zanardelli, prosegue insomma un’intensa discussione trattatistica che mira a fornire spunti di riforma al Codice stesso o a delinearne linee interpretativo–applicative, prospettando una condizione normativa specifica ben più complessa della netta attribuzione del nomadismo alla sfera della Pubblica Sicurezza.
Vagabondi tipici etnici: nomadismo e follia morale
La prima e più autorevole definizione scientifico–giuridica del ‘nomadismo zingaro’ è quella di Cesare Lombroso, il quale si riferisce esplicitamente al ‘popolo errante’, affermando la chiara influenza della razza nel loro appartenere alla ‘cerchia del delitto’, o meglio nel loro essere ‘delinquenti nati’.
Tale popolo, derivato dalle scorie reiette delle tribù indiane, scrive Lombroso, potrebbe uscire dalla delinquenza, divenuta ormai la loro professione, poiché non mancano d’ingegno e di energia. Eppure, non vi riescono. L’impossibilità e l’ineluttabilità del destino zingaresco, confinato entro la delinquenza, non è del resto un tema secondario delle analisi lombrosiane. Anzi. Ne L’uomo delinquente (edizioni del 1876 e 1897) gli zingari assurgono a popolo – simbolo, assieme agli ebrei, anche se in un senso differente.
Dove spiccano chiare le influenze della razza sulla criminalità è nello studio degli Ebrei e degli Zingari, e ciò nel senso precisamente opposto […] in essi [negli ebrei] come negli Zingari, predomina la forma ereditaria del delitto […] mentre è bello il notare che appena all’Ebreo si apriva uno spiraglio di vita politica, sembrò venirgli meno la tendenza a questa specifica criminalità. Non così può dirsi degli Zingari, che sono l’immagine viva di una razza intera di delinquenti e ne riproducono tutte le passioni ed i vizi. Hanno in orrore, dice Grellmann, tutto ciò che richiede il minimo grado di applicazione; sopportano la fame e la miseria piuttosto che sottoporsi ad un piccolo lavoro continuato; vi attendono solo quanto basti per poter vivere[…] Hanno l’imprevidenza del selvaggio e del delinquente […] Autorità, leggi, regola, principio, precetto, dovere, sono nozioni e cose insopportabili a codesta razza stranissima.
L’atavismo delinquenziale è dunque per Lombroso come un assioma, di cui il nomadismo inteso come primitivologismo è lo strumento, il dato concettuale che permette di provare la loro delinquenza di stampo razziale. “Gli Zingari si potrebbero chiamare, in genere, come i Beduini, una razza di malfattori associati”. Senza legami con il passato né con l’avvenire, estranei all’avere come al dovere (chiaro riferimento alla tipologia dell’ozioso), tale razza, scrive Lombroso, appare slegata o meglio come sospesa sulla terra, immobile nel pensiero e al contempo leggera, vagante senza regole definibili.
Una delle critiche più ferme ed acute della prospettiva di Lombroso procede dalle riflessioni del sociologo e statistico catanese Napoleone Colajanni, il quale, recensendo nel 1889 l’allora noto ed autorevole libro di Adriano Colocci, Gli zingari. Storia di un popolo errante, scrive:
emerge chiaro che essi [gli zingari] non sono migliori o peggiori degli altri uomini, e che a seconda delle condizioni sociali e dell’ambiente in cui vivono e del modo come essi sono trattati si rivelano onesti o malvagi, coraggiosi o vigliacchi. Le infamie di cui loro si fa carico non sono ordinariamente che il prodotto dei pregiudizi popolari, e fa meraviglia soprattutto che abbiano potuto essere accettate da coloro che scrivono in nome della scienza.
La medesima posizione è rafforzata nel suo lavoro Sociologia criminale (1889) ove Colajanni critica nello specifico il principio deterministico, rigidamente causa-effettuale, dei tratti somatici, nonché il principio correlato di ‘tendenze criminali’ intese come modificazioni immutabili ed inevitabilmente comportanti la predisposizione all’azione delittuosa. Di nuovo, è sottolineata la centralità della relazione tra persona e contesto sociale (ambientale, educativo) per spiegare le varie forme di devianza, utilizzando le tesi di Colocci:
ci è noto il giudizio riassunto da Lombroso sugli zingari come la razza più nomade, più refrattaria alla vita sedentaria ed ai costumi agricoli. Ebbene, bastò una relativa libertà ed altre concessioni accordate loro in tempo nella Romenia per trasformarli e fissarli al suolo, coltivarlo con cura, darsi ad un mestiere, e fare dei patrioti di una stirpe che per patria non ha di ordinario che le sue tende ed i suoi carri.
Il Colocci […] attribuisce la loro delinquenza – quasi esclusiva contro la proprietà – alla loro grande miseria, e afferma che tutti quelli divenuti sedentari […] sono diventati uguali nella moralità media ai cittadini appartenenti alle altre razze e come loro ubbidiscono già alle leggi e si istruiscono.
La posizione di Colajanni è chiara: un netto rifiuto di quello che in uno scritto successivo (Per la razza maledetta, 1898) definirà la ‘forza misteriosa della razza’. A livello epistemologico la critica appare chiara: si contesta l’eccessivo causalismo, la rigidità e l’ineluttabilità del carattere atavico – ereditario, la sostanziale non modificabilità della condizione deviante e delinquenziale. Nel caso della prospettiva di Colajanni è necessaria una breve riflessione critica. Colajanni non mette radicalmente in discussione la condizione degli zingari, ne cerca piuttosto un principio esplicativo non rigidamente deterministico. La novità della prospettiva di Colajanni rispetto a Lombroso è proprio la possibilità del cambiamento, ma è su tale concetto di cambiamento che occorre riflettere. Altri passaggi appaiono in tal senso centrali: gli zingari non sarebbero nomadi congeniti perché è possibile trasformarli, fissarli al suolo. Così, possono divenire uguali per moralità ed ubbidienza alle leggi ‘ai cittadini appartenenti alle altre razze’.E possono essere resi patrioti, non più membri di una stirpe che per patria non ha di ordinario che le sue tende ed i suoi carri.
In un pensiero che presuppone l’uguaglianza e la non gerarchizzazione delle razze, quale significato assume allora quel movimento trasformativo – educativo, il divenire uguali? Cosa sono gli zingari prima di divenire uguali? Quale il senso, la ‘posizione’, il ‘volto’ della loro differenza? A quali tratti e secondo quali dinamiche può essere spiegata? Se non appare un carattere naturale, congenito razzialmente, ma mutevole, qual è quindi la caratteristica, la sfera paradigmatica caratterizzante del nomadismo zingaro?
Circa dieci anni dopo, tra il 1897 ed il 1900, gli studiosi del diritto Eugenio Florian e Guido Cavaglieri danno alle stampe i tre volumi dedicati al tema del vagabondaggio, nei quali lo zingaro viene specificamente preso in considerazione quale
esempio classico di razza vagabonda attraverso lunghi secoli ed innumerevoli vicende, vagabonda per impulso congenito e non domato dall’azione della civiltà […] Costoro conservano puro il primitivo bisogno di vagare e lo conservano associato alla nota, tradizionale consuetudine ed abilità dei furti e dei reati affini […]. Noi però pensiamo che costoro meglio che delinquenti nati si possano ritenere vagabondi nati, nei quali il furto rappresenti la forma parassitaria, essa pure tradizionale e sopravvivente, che suole accompagnare e completare il vagabondaggio.
Nello specifico, afferma Florian, quella dei vagabondi è una condizione sospesa tra anormalità (ai confini della patologia) e delinquenza (criminalità, ma senza ‘carattere’, senza efferatezza). Ciò che è vagabondaggio impulsivo deriva dalla nevrastenia, scrive infatti Florian, ed ha nella scienza una definizione all’epoca precisa: automatismo ambulatorio. Il quale, scrive Pitrè, “n’est certaiment pas une maladie autonome, c’est un episode morbide […] un syndrome maladif essentiellement constitué par des accès intermittents d’impulsions irrésistible à la marche”. Né vera e propria malattia, ma comunque stato patologico, l’automatismo ambulatorio propriamente è sindrome – episodio, quotidianità del camminare che ‘devia’ dal normale. Come una paradossale “lucida follia”, essa si configura quale patologia ‘all’infuori della quale’ gli stessi individui ‘rapiti’ sembrano normali: in tale definizione e descrizione i rigidi confini tra normale e patologico assumono una significativa mobilità. La medesima mobilità è quindi caratteristica dell’impulso al nomadismo degli ‘zingari’, quale loro essere in balia delle emozioni. Si tratta del medesimo sentire che caratterizza il ‘popolo errante’ secondo lo storico e linguista Colocci, del cui lavoro sono debitori gli stessi Florian e Cavaglieri. Appare allora ancora più significativo sottolineare come lo storico di Jesi definisse il carattere nomadico e la ‘natura’ zingara più intima, il sentire, appunto.
Per lo zingaro sentire diviene la sintesi della sua esistenza; egli vuo’ sentire, non importa a qual prezzo […] egli aspira all’indipendenza assoluta dell’essere coll’assoluta indifferenza dell’avere […] e sentire completa la propria personalità, il proprio io libero e indipendente – questo è l’anelito intimo ed innato nell’anima dello zingaro. […] Il bisogno di questa indipendenza illimitata, che è divenuta la speciale caratteristica dei Tzigani, è attinto da una specie di perenne ebbrezza, causata dal loro contatto incessante colla Natura […] essi non saprebbero più vivere privati di cotesta continuità di sensazioni vivaci e penetranti […] in cui sono incessantemente alle prese col pericolo.
Il sentire come nocciolo della natura zingara appare infatti un ibrido tra volontà ed istinto, un anelito ed un bisogno, innato ma che è ‘divenuto’ tale, aspirazione e derivato da un’ebbrezza, che lo configura quasi come una dipendenza patologica, uno stato di ‘febbre omotona’, scrive Colocci. Ed in tale permanente condizione del sentire, continuamente sospesa tra salute e malattia, volontà e istinto, si sintetizza lo ‘stato speciale dello zingaro’. Il quale porta con sé la ‘febbre’ di una ‘perenne vita nomade’. Siamo dunque al cuore del complesso descrittivo del ‘popolo errante’: i nomadismi dell’origine, della comparsa (diffusione) e della persecuzione vengono saldati al sentire nomadico zingaro, all’intima natura individuale, la quale a sua volta è pensata come immediatamente collettiva, essenza di un intero popolo.
Questo ‘ordine del discorso’ troverà un ulteriore sviluppo ed un terreno di coltura tragicamente fertile nell’epoca dell’avvento della scienza eugenica in Italia e del regime fascista.
Bonificare un pericolo psico-morale: dal razzismo al concentramento
Ci sono infine delle virtù, dei vizi di razza, delle costituzioni psicologiche
comprendenti tutta una gente, continuate ed ereditate, che possono essere definite mutazioni psicologiche. Gli zingari […] popolo vagabondo, nomade,astuto,sanguinario e ladro, perseguitato e disprezzato, che vive di inganni e di furti […] ha acquistato della qualità psicologiche di razza che possono definirsi mutazioni di psicologia razziale.
Le qualità psico-morali razziali degli zingari noi le definiamo ‘mutazioni
psicologiche regressive razziali’. Gli zingari costretti ad abbandonare la loro terra d’origine […] costretti all’esilio, a vagabondare per le vie del mondo poveri e disprezzati, emigrarono in cerca di pace. Le loro tendenze psico-morali cominciarono a delinearsi coll’imporsi delle prime necessità della vita, con la dura lotta per l’esistenza, e così, piano piano, attraverso secoli, l’ambiente funzionò da choc scatenante, tramutando le qualità recessive in qualità dominanti.
Così definisce il ‘popolo nomade’ Renato Semizzi, docente di Medicina sociale presso l’Università di Padova, tra il 1938 e il 1939.
Appare evidente la maturazione di tali definizioni in un contesto storico che ha da poco visto la pubblicazione del ‘Manifesto della razza’, del quale Semizzi fu uno dei numerosi aderenti nel panorama accademico, scientifico e culturale. Tra i firmatari, per inciso, figurava l’allora senatore Nicola Pende, oltre ad altre figure di spicco, non a caso, del panorama scientifico medico, psichiatrico, biologico e demografico.
Nel complessivo quadro politico e scientifico relativo alle ‘leggi razziali’ (l’insieme dei provvedimenti legislativi ed amministrativi varati dal regime fascista a partire dal 1938),lo ‘zingaro’ rientrò nella categoria dei meticci, a causa dei tratti fisici e dell’origine indiana ‘mescolata’ con il ‘razza’ europea. Ma l’estraneità e asocialità del popolo nomade venne ritenuta pericolosa, ancora una volta, in ragione della sua ‘mancanza di senso morale’: tale anormalità, considerata esattamente nel senso eugenico suddetto, costituiva una minaccia per l’integrità psico-fisica della società italiana.
Guido Landra e Telesio Interlandi, dalle colonne delle riviste Il Tevere e soprattutto La difesa della razza importarono dalla Germania temi della campagna razziale di stampo biologico-purista, creando una complessa diatriba politico-culturale all’interno dello stesso frame del ‘razzismo di stato’, da cui è possibile trarre una conclusione sancita storiograficamente: “l’interpretazione ‘scientista- biologista’ del razzismo è destinata ad un processo di progressiva emarginazione a vantaggio dell’interpretazione più ‘spiritualista-volontarista’ che accentua della razza il significato ideologico-culturale ed al mito naturalista della purezza del sangue preferisce di gran lunga l’italianissimo mito pedagogico della ‘coscienza razziale'”.
Quindi la politica della razza coinciderà con l’interpretazione demo- grafico-quantitativa, medico-sociale e clinico-ortogenetica propugnata da Pende e dal padre della sociologia italiana, Corrado Gini. Non a caso l’organo deputato alla gestione della politica razziale è in Italia un Direzione generale della demografia e della razza (Demorazza), organo che sostituisce ed integra l’Ufficio centrale demografico istituito nel 1937 con il compito di rilanciare la campagna demografica.
La nozione di razza maggiormente influente e legittimata a livello politico non è quindi tanto fondata sul genotipo, quanto sulla valorizzazione della dimensione ‘ecologica’ dell’habitat: ‘razza’ evoluta e meglio caratterizzata è quella che ha saputo adattarsi e modificare l’ambiente, e che inoltre mostra un’armonia ed equilibrio psicologico-culturale.
I popoli di colore sono assai meno plastici e assai meno passibili di adattamento;
quanto più si discende verso le razze primitive, tanto più questa plasticità si va riducendo; le razze inferiori sono destinate a essere sopraffatte, le altre non hanno questo triste destino, ma non debbono però essere sospinte oltre i loro limiti estremi. Un popolo nomade non si trasformerà mai in sedentario, un popolo della foresta non diventerà mai abitatore della savana.
Di conseguenza a tale prospettiva il meticcio appare come un errore biologico, il cui disadattamento si rivela una minaccia sociale e politica: “vive come uno straniero, come un intruso, vive come una incrostazione, che si è abbarbicata ma che non ha messo radici, come una incrostazione su cui affiora pur sempre quel fondo primordiale, quel patrimonio di qualità inferiori”.
Ma se in questo quadro gerarchico le popolazioni africane, nonché in ultima istanza anche la popolazione ebraica, appaiono come la differenza assoluta (l’Altro totalmente inassimilabile) il meticcio appare una minaccia modulata in maniera più articolata, in quanto la radicalità dell’inscrizione dell’inadattamento nel genotipo appare modulata dalla ‘doppia natura’ del meticcio stesso. Il quale oscilla appunto tra prospettiva di determinismo biologico e causalismo ambientale.
Dove collocare allora in tale contesto scientifico e politico la figura del meticcio? Essa oscilla tra le differenti anime del razzismo italiano, anzi è proprio la figura attraverso la quale si veicola il ‘dialogo’ tra le differenti accezioni di razza e di approcci eugenico-politici, ‘dialogo’ che a sua volta vede nella prospettiva biomedico-politica la sua direttrice principale.
Il comune denominatore tra le differenti prospettive ‘razziali’ rimane difatti il pensiero della minaccia interna del degenerato, la quale, attraverso la congiuntura storica della colonizzazione ‘imperiale’, si fa interna, nella concreta figura del meticcio, mescolanza indefinibile ed incollocabile tra l’esteriorità radicale del ‘primitivo’ e l’interiorità dell’organismo nazionale, minacciato nella sua salute non solo biologica ma anche spirituale (psico-morale). Purezza e sanità, come scrive Landra, vanno di pari passo, poiché le insidie sociali, aggiunge Semizzi, possono essere non solamente causate da tare ereditarie fisiche, ma anche psico- patologiche o morali, e non esclusivamente dovute a cause congenite, ma anche da fattori ambientali, da pregiudizi e consuetudini radicate nel corpo individuale e collettivo (o meglio, nella psiche) di determinati soggetti sociali. In maniera tale da configurare una ‘malattia sociale’: serie di fenomeni provenienti da un ‘congegno sociale deficiente’, identificabile con soggetti ‘anormali’ e passibili di costituire una minaccia in quanto portatori e potenziali diffusori di una ‘mutazione regressiva’. Dunque la ‘mixofobia’, la difesa dalla minaccia degenerogena del meticcio di cui si caratterizza la cultura politica del razzismo italiano, investe non solo la sfera dell’africano e dell’ebreo, ma anche l’ambito delle diffuse pericolosità sociali, ed in primo luogo quelle definibili secondo caratteri di popolazione e razziali. A questo punto, ciò considerato, appare quasi ‘scontato’ che la definizione e strutturazione della pericolosità dello ‘zingaro-nomade’ si collochi esattamente entro la questione eugenico-politica (tra eutenica e biologismo) del meticcio come minaccia in quanto ‘mutazione regressiva’.
Chiarito il quadro storico-teorico di riferimento nella sua articolazione interna, appare allora rilevante tornare alle definizioni di Semizzi citate in precedenza.
Per aggiungere una riflessione a partire dalla loro conclusione, sempre riguardo il concetto del carattere ‘psico-morale’ del ‘popolo nomade’ come ‘mutazione regressiva razziale’: certamente queste qualità psicologiche ebbero origine dall’ambiente e quindi non hanno una vera origine biologica, né sono delle vere mutazioni nel senso stretto, ma dato che continuano e che sono ereditarie e che anche esperimenti di trapianto non sono riusciti a cancellare queste caratteristiche psicologiche, dobbiamo accettarle come mutazioni.
Permanente ma non ineluttabile, la mutazione regressiva psicologica del popolo nomade non è una tara biologico-ereditaria, assimilabile quindi ad una malattia congenita o ad una deformazione somatica. Quindi essa sarebbe passibile di inversione, qualora si verificasse una costante azione eutenica di ‘riadattamento’ e rieducazione. Ma al contempo emerge il fallimento di ogni tentativo di ‘normalizzare’ il nomade, il quale non può certo fare ritorno alle proprie origini, ai propri spazi nomadici ‘puri’, e nemmeno riesce ad adattarsi, a ‘divenire uguale’. In questo senso, il nomade-meticcio coincide con una condizione di vera e propria eccezione permanente, intesa in primo luogo come un’apolidia antropologico-culturale. Lo zingaro-meticcio, minaccia bio-psicologica per la razza, non si configura allora propriamente come un’a-sociale o anti-sociale, in quanto non si colloca fuori o contro l’ordine socio-politico, ma ne attraversa i confini. Anzi, ne incarna i confini, divenendo l’idealtipo dell’eccezione come emergenza, come spazio della lotta dalla quale emerge appunto la norma. Ed in un ordine del discorso biomedico-politico, tale emergenza scorre lungo la direttrice concettuale della pseudo-patologia saldata alla sfera del nemico interno: l’individuo pericoloso può essere sia una minaccia da estirpare che un soggetto da rieducare. Quello che emerge in tal senso è una incollocabilità, una indefinibilità che non paralizza la costruzione culturale né impedisce la strutturazione normativa, ma anzi appare paradossalmente creatrice di senso e di azione politica: in altre parole, si tratta della definitiva ed altrettanto paradossale emersione evolutiva della a-normalizzazione dello ‘zingaro-nomade’ capace di configurarsi come ‘sapere’ legittimante una determinata azione politica. La quale anche nell’epoca del ‘razzismo di stato’ in Italia continua ad oscillare (comunque secondo una stretta intersezione) tra un dispositivo istituzionale eutenico-rieducativo, di fatto dominante ed affiancato dal dispositivo di Pubblica Sicurezza, ed una proposta di una soluzione politica più vicina al modello eugenetico tedesco, o comunque improntata secondo il principio della irrecuperabilità e quindi dell’esclusione degli ‘inadatti’. Dove collocare dunque in un simile quadro di potere/sapere il popolo nomade? La sua effettiva ‘apolidia’ antropologica si traduce in un’impossibile normazione specifica, o meglio in una costante duplicità politico-culturale, capace di porsi al limite di ogni costruzione definitoria di un ordine del discorso, e dunque incarnandone gianicamente le opposte accezioni, nella psiche e nel corpo, individuale e collettivo. Gli zingari, in conclusione, sono esattamente l’eccezione fatta popolo, la pericolosità incarnata non tanto nella tradizione in sé, specifica del popolo rom e sinto, quanto nella successione degli eventi storici della sua ‘recezione’ in ambito europeo ed italiano nello specifico. Dunque in ultima istanza si tratta della pericolosità inscritta a live
llo biologico-psicologico in un determinato rapporto fra tradizione ed ambiente socio-culturale ‘autoctono’, e dunque del rapporto fra identità ‘originaria’ ed identità ‘meteca’ collettiva. La pericolosità individuale può allora essere estesa ad ogni membro della popolazione zingara: non c’è una donna che non sia chiromante, non c’è un uomo che non si dedichi al furto o alla truffa. La pericolosità diviene totalizzante e permanente: ogni passaggio filogenetico, ogni istante della storia e della tradizione zingara è intrisa di tale condizione d’eccezione ed emergenziale, così come ogni aspetto del suo agire collettivo ed ogni passo della condizione ontogenetica.
Di certo il popolo rom e sinto non fu nel ventennio fascista una minaccia avvertita come incontrollabile dal regime. Gli ‘zingari’ erano infatti già da tempo relegati ai margini della società, con scarsi mezzi di elevazione sociale. Non deve quindi stupire che la discriminazione di questo gruppo non rappresentasse certamente una priorità nella politica demografica fascista. Ciò che appare significativo è piuttosto il fatto che la pericolosità sociale fosse desunta dalla medesima condizione storico-antropologica del popolo rom e sinto, ma non in assoluto: la condizione originaria del popolo nomade appare non regressiva, e testimonianza ne è, riprendendo di nuovo le analisi di Semizzi, la presenza di ‘zingari’ laboriosi e con una moralità positiva, portatori di ‘qualità primigenie’. La mutazione è difatti correlata allo sradicamento rispetto all’ambiente originario, è precisamente un problema di adattamento.
Un simile quadro complessivo di ambivalente potere/sapere non impedì comunque l’emanazione dell’ordine, impartito l’11 Settembre 1940 da Arturo Bocchini, capo della Polizia italiana, inerente il “rastrellamento e la concentrazione di zingari italiani e stranieri sotto rigorosa sorveglianza per porli in località adatte in ciascuna provincia”.
Le prefetture italiane arrestarono e raggrupparono famiglie e di rom e sinti, in seguito imprigionate nei campi di concentramento, tra i quali di almeno tre è documentata la specifica natura di ‘campi per zingari’: Perdasdefogu in Sardegna, il convento di S. Bernardino ad Agnone, in provincia di Campobasso, e Tossicia, in provincia di Teramo. La motivazione ufficiale dell’internamento specificata nella circolare del Ministero dell’Interno parlava di una necessità di controllo su tutti gli zingari, poiché “commettono talvolta delitti gravi per natura intrinseca e modalità di organizzazione ed esecuzione, sia per possibilità che tra i medesimi vi siano elementi capaci di esplicare attività antinazionale”.
L’adesione alle imposizioni ministeriali fu pressoché totale, portando effettivamente alla creazione in ciascuna prefettura italiana di almeno un centro provinciale per l’internamento dei rom e dei sinti, oltre che all’eventuale internamento nei comuni di residenza.
Sebbene in una condizione di palese esclusione, la condizione di internamento e concentramento si accompagnò in alcuni casi ad una paradossale dimensione rieducativa.
Alcuni funzionari di Pubblica Sicurezza, responsabili della gestione dei campi, pensarono infatti di poter ‘redimere’ gli zingari, agendo soprattutto sui bambini. “Fu così che alcuni tra prefetti, podestà e direttori dei campi di concentramento () decisero di avviare progetti ‘rieducativi’, con l’intento in alcuni casi esplicito di inculcare ai piccoli i semi dell’ideologia fascista”. Furono almeno tre i casi (ad oggi documentati) di internamento affiancato da un progetto di scolarizzazione. Per gli internati a Savigno (Bo) e Castel Tesino (Tn), si trattò di concedere ai minori rom di recarsi nelle scuole locali, con una loro integrazione passiva nelle attività didattiche. Nel campo di Agnone si istituì invece una vera e propria scuola all’interno del campo.
Astenendoci da ogni considerazione storiografica, considerata soprattutto la questione ancora aperta del trattamento degli zingari durante gli anni del concentramento, rimane un ultima riflessione. Si è menzionato il fatto che i provvedimenti più drastici di ‘epurazione’ della presenza zingara riguardassero essenzialmente gli zingari stranieri. Il razzismo di stato implica però in tal senso un salto politico-culturale: la considerazione della pericolosità sociale del nomade come razza, e quindi della sua minaccia a prescindere dalla nazionalità. Come è difatti specificato alla voce ‘razza’ del Dizionario di politica fascista del 1940, gli zingari, basandosi su quanto sancito dalle Leggi di Norimberga, sono da considerare persone straniere in Europa, così come gli ebrei.
Dunque, unendo a ciò la categorizzazione della razza zingara come complessivamente meticcia e caratterizzata da mutazione regressiva, appare chiaro come un’eventuale azione di ‘pubblica sicurezza ed igiene’ in tal senso debba a rigor di logica improntarsi ad un’azione d’eccezione rispetto alla distinzione giuridica della cittadinanza. In altri termini, la diffusione ed il carattere permanente della pericolosità zingara, sancito dalla sua inscrizione nella sfera biomedico-razziale, comporta una significativa ricaduta a livello della pubblica sicurezza: anche gli ‘zingari’ cittadini italiani sono passibili di essere considerati stranieri, in quanto estranei e minacce rispetto all’organismo nazional-razziale. Una simile potenzialità, sino agli inizi del 1940 definita solamente a livello dell’ordine del discorso politico-razziale e scientifico, diviene attuale anche in seguito a precise congiunture storiche. Prima tra tutte, l’ingresso dell’Italia nella Seconda guerra mondiale a fianco della Germania nazista, nel Giugno 1940. Difatti è l’emergenza bellica a fornire la cornice storico-politica centrale nella radicalizzazione ed estensione della prevenzione della pericolosità sociale, nel nome dell’azione contro il nemico interno, sabotatore, spia o in generale pericoloso per il regime. Ma come osserva Giovanna Boursier, sino al 1943 “l’appartenenza alla razza ebraica non è mai esplicitamente indicata come requisito sufficiente all’internamento, se non accompagnata dalla pericolosità in contingenze belliche”. Paradossalmente, è proprio la pericolosità zingara ad essere considerata passibile di internamento secondo criteri più immediatamente riconducibili al carattere etnico-razziale. In termini ancora più precisi, nella disposizione di internamento relativa al ‘popolo nomade’, la stessa appartenenza al popolo rom e sinto costituisce l’unico criterio esplicitato di pericolosità, cui non corrisponde l’atto pericoloso quale esteriorità, come potenzialità: ogni zingaro, insomma è in sé pericoloso, senza eccezione, e lo è per il carattere psico-morale di razza. Seguendo l’ipotesi delineata da Boursier, dunque, l’ebreo è internato se pericoloso, mentre lo zingaro viene internato in quanto pericoloso.
Il problema della tutela di una ‘cultura residuale
La promulgazione delle due risoluzioni della Comunità Europea n.563/69 e n.13/75 sancisce ufficialmente il nuovo contesto politico-normativo post-bellico, entro il quale la ‘questione nomade’ deve essere gestita nella sua ‘problematica integrazione’: i ‘nomadi’ devono essere preservati nella loro identità e nella loro eredità culturale, nonché devono ricevere adeguata protezione sociale. Il punto B. della risoluzione n.563 sancisce in tal senso che i ‘campi’ sono la soluzione urbanistica privilegiata attraverso la quale gestire la questione della tutela dell’identità ‘nomade’. Ma già dalla Risoluzione n.125/81 si assiste ad un’evidente correlazione tra problemi di integrazione e difficoltà nel mantenimento di uno stile di vita nomadico nella società europea contemporanea. Inoltre si asserisce che le popolazioni di origine nomade, una volta più o meno forzate a divenire sedentarie, “hanno la tendenza a creare problemi a causa della perdita della loro identità socio-culturale (…) e sono incapaci di assumere immediatamente i ruoli e le competenze socio-culturali della popolazione sedentaria.
Un simile ‘ordine del discorso’ caratterizza, sin dall’inizio degli anni ’60, l’intera produzione scientifico-culturale del principale ‘laboratorio’ italiano riguardante gli studi sull’identità e la società rom e sinta: la rivista Lacio Drom del Centro studi zingari di Roma, l’Istituto di Pedagogia dell’Università di Padova, l’Opera Nomadi (dichiarata Ente morale dalla Presidenza della Repubblica nel 1973).
Si tratta di un ‘laboratorio’ culturale, scientifico e sociale capace di svolgere un ruolo-chiave come ‘think-tank’ nella definizione dei principii e delle linee politico-normative italiane.
La categorizzazione dell’inclusione come ‘problema sociale’ trova una sua specifica accezione e definizione scientifica, principalmente attraverso il concetto di adattamento, ancora una volta intimamente correlato alla condizione socio-culturale nomadica: la marginalità rom e sinta è definita come un profondo gap, come un ‘incerto equilibrio’ tra due culture, quella ‘zingara’ in perenne crisi (se non in ‘via d’estinzione’) e quella occidentale moderna, difficile se non impossibile da raggiungere. Lo ‘zingaro-nomade’ è così definito come etnicamente caratterizzato da un permanente disadattamento sociale, a sua volta frutto di specifiche condizioni congiunturali storico-culturali, interrelate alla costante ed ‘innata’ condizione psico-morale di instabilità. Etichettato in una condizione di costante liminalità ed eccezione, lo ‘zingaro-nomade’ è pertanto caratterizzato da una condizione di disadattamento ed instabilità (mancanza di auto-controllo e volontà) che configure una permanente ‘tendenza’ al comportamento a-sociale, se non anti-sociale ed anomico.
Ma come è possibile includere-integrare ed al contempo tutelare una condizione socio-culturale (il nomadismo) definita come un ‘disadattamento etnico’ ad elevato rischio di comportamento a-sociale?
Tale paradossale ‘etichetta’ del ‘nomadismo zingaro’ costituisce un organico ‘regime di verità’ che lavora entro la definizione dei principi politico-normativi e di azione pubblica, implicando per la sua stessa paradossalità la creazione di una costante categorizzazione d’urgenza. Ciò poiché, come una profezia che si auto-avvera, ogni misura presa nei confronti della ‘problematica integrazione/tutela’ del ‘nomadismo’ finisce col confermare la persistenza del ‘problema sociale’, e dunque la sua difficile soluzione. Ecco allora come possono nascere ed articolarsi ‘soluzioni’ istituzionali come le classi separate Lacio Drom, classi-ghetto per bambini e bambine rom e sinti, in vigore sino al 1982.
Il ‘campo nomadi’: una ‘definitiva temporaneità’
Il permanente disadattamento e ‘fuori luogo’ dello ‘zingaro nomade’ deve essere localizzato nello spazio pubblico. E lo spazio legittimato per l’urgenza del problema sociale nomadi come per la sua ‘tutela’ è il campo: una necessaria e transitoria condizione socio-politica d’eccezione, in attesa della definitiva promozione ed integrazione, come sancito dalle normative europee. In Italia ciò coincide con un processo avviato a metà anni ’60 ed ulteriormente rafforzato e legittimato dalla metà degli anni ’80 (leggi regionali): comuni e regioni aprono e legittimano le ‘zone di sosta’ per roulotte e soprattutto ri-significano il lemma ‘nomadi’, creando il ‘dispositivo’ del campo nomadi, un’unione tra misura amministrativa ed un regime di verità scientifico-culturale.
Pertanto la relazione tra il regime di verità dello ‘zingaro nomade’ e l’apparato del campo nomadi deve essere considerato un legame biunivoco e fondativo: non solo l’invenzione di una popolazione unica ed omogenea avviene in parallelo e grazie all’invenzione di un dispositivo etnico-comportamentale di trattamento della medesima, ma anche l’invenzione del dispositivo amministrativo del ‘campo nomadi’ avviene grazie alla ‘tradizione’ ed alla recente ridefinizione del regime di verità: la categorizzazione dell’innato disadattamento psico-sociale dello ‘zingaro nomade’ costituisce un elemento fondativo del sistema che istituisce il campo nomadi.
Ma se lo spazio temporaneo del campo nomadi diviene un dispositivo permanente (e pressoché esclusivo) di azione politica, ciò implica un’alta probabilità di confermare l’immagine di partenza del nomade caratterizzato da un ‘adattamento problematico’.
Pertanto il campo nomadi diviene un dispositivo di “azione educativa, sociale, sanitaria ed economica concentrica”, uno spazio di controllo ed il mezzo attraverso il quale viene creato un target group, nominalmente attraverso un’etichetta etnica che è riconfermata da misure amministrative e dalle condizioni sociali dello spazio stesso, le quali sono giocoforza informate da una condizione che in parte richiama ed in parte è direttamente correlata ad una situazione di contingenza, localizzazione marginale, che riconduce ad un senso di emergenza,di catastrofe naturale, come un’inondazione o un terremoto.
Il risultato è la permanente riproduzione e conferma della questione nomade come problema sociale: il campo nomadi è lo spazio di una paradossale marginalizzazione definitivamente temporanea.
Il nomade: un problema per la sicurezza ed un’emergenza permanente
Arriviamo alla seconda metà degli anni ’90, nel contesto della nuova centralità giuridico-politica (di matrice statunitense) data ai fenomeni delle ‘incivilities’ e dei ‘petty crimes’ (‘degrado urbano’ e microcriminalità), percepiti e definiti come fonte di insicurezza, un pericolo per l’ordine pubblico, per la sicurezza e la moralità. Un simile discorso e prassi ‘law and order/zero tolerance’ inizia con specifiche varianti ad essere applicato anche in Italia a partire dalla metà degli anni ’90 (in particolare nel corso del governo d’Alema).
Una saldatura normativa tra ordine pubblico e sicurezza è realizzata in Italia con l’art. 159 d.lgs. 31-03-1998: “ funzioni ed obiettivi amministrativi correlati all’ordine pubblico ed alla pubblica sicurezza riguardano misure preventive e repressive per mantenere lo stesso, il quale è definito come il complesso delle proprietà legali fondamentali e dei pubblici interessi primari sui quali si fonda la coesistenza ordinata e pacifica”
L’esempio più evidente e paradigmatico in tal senso, in particolar modo per quanto riguarda la ‘questione rom-nomadi’, appare l’ambito normativo dei Patti per la Sicurezza, nei quali i ‘nomadi’ tornano ad essere definiti in prima istanza come una causa di allarme sociale ed insicurezza.
Si consideri per esempio ciò che è sancito nel preambolo del Patto per Milano: “I cittadini mostrano un crescente senso di insicurezza (…) e l’allarme è più alto nelle aree suburbane. (…) La città di Milano (…) soffre la presenza di numerosi cittadini irregolari extracomunitari e nomadi che si sono stanziati permanentemente nel territorio, usando strutture illegali in aree abbandonate ed [Patto per Milano sicura. Patto per la sicurezza urbana fra il Prefetto ed il Sindaco di Milano, 18 Maggio 2007]. Come conseguenza di tale situazione, il sindaco ed il prefetto intraprendono l’azione prioritaria della promozione di azioni per ‘combattere fenomeni diffuse di crimine e squatting’, entro i quali i ‘campi non autorizzati sono considerati una delle priorità.
La premessa normativa e teorica di tale ordine del discorso politico-normativo è definita ed esplicitata nell’Accordo quadro ‘Patto per la sicurezza tra Ministero dell’Interno ed ANCI, il 20 Marzo 2007. In tale documento il nomadismo è categorizzato come un fattore di rischio-crimine, o meglio come un comportamento criminale, causa e conseguenza di ‘disagio urbano’, accanto allo spaccio di droga e sfruttamento della prostituzione.
Ma il culmine si raggiunge con il decreto legge del 21 Maggio 2008, ‘Dichiarazione dello stato di emergenza in relazione agli insediamenti delle comunità nomadi nelle regioni di Campania, Lazio e Lombardia’ e con le relative ordinanze di protezione civile n. 3676, 3677 and 3778 (30 Maggio 2008). Quanto si legge nella dichiarazione del 21 maggio 2008 parla da sé: “In considerazione della situazione estremamente critica nella quale si trova la Lombardia, a causa della presenza di numerosi cittadini africani senza permesso e di nomadi che si sono stabiliti nelle aree urbane; in considerazione del fatto che i suddetti insediamenti, a causa della loro estrema precarietà, sono la causa di un serio allarme sociale, con possibili ripercussioni sull’ordine pubblico e la sicurezza delle popolazioni locali; e in considerazione del fatto che la situazione descritta ha causato un aumento della preoccupazione sociale con gravi incidenti che seriamente mettono in pericolo l’ordine e la sicurezza pubblici; considerata la suddetta situazione che coinvolge a diversi livelli la gestione del territorio a causa della sua intensità ed estensione, risulta che non può essere affrontata utilizzando le leggi previste dall’ordinamento italiano”.
Il problema ‘sociale dei nomadi’ è quindi definito e legittimato come un’emergenza permanente e comparato ad un disastro naturale che crea ipso facto una situazione di allarme pubblico. Infatti l’emergenza nomadi è definita socio-ambientale: il degrado dello spazio del campo è direttamente correlate all’allarme sociale collettivo: il degrado ambientale implica quindi automaticamente un pericolo sociale collettivo, definito attraverso un para-etnonimo (nomadi). La condizione precaria del ‘campo nomadi’ diviene un permanente mezzo di controllo sociale d’eccezione (vedi la proroga dello stato di emergenza ad sino al 31 Dicembre 2011). Ma la simbiosi socio-ambientale nella definizione normativo-amministrative dell’emergenza nomadi non sarebbe possibile se anche in tale contesto non fosse attivo il ‘regime di verità’ del ritardo adattivo psico-sociale (e quindi dell’alto rischio di asocialità) di rom e sinti che rende possibile la categorizzazione di un rischio collettivo assolutamente correlato (un unicum senza eccezioni) con il degrado ambientale.
– Ciò è possibile anche in ragione del fatto che studi scientifici psico-sociologici, rapporti e ricerche istituzionali confermano ancora oggi l’etichetta del ‘disadattamento etnico’. Prosegue la definizione e legittimazione di una ‘metafisica zingaro-nomade’ che implica l’etichettamento quale ‘inevitabile’ ed assoluto (senza eccezioni) rischio sociale, attivo in maniera ancora più evidente nelle ordinanze d’emergenza. In fatti, osservando i concetti chiave normativo-amministrativi, l’ordinanza di urgenza e necessità di protezione civile (che per inciso implica una catastrofe di grado 3 – calamità naturali, catastrofi o altri eventi che a causa della loro intensità ed estensione, devono essere fronteggiati con misure d’emergenza) trova il proprio fondamento principalmente nello stesso concetto giuridico di urgenza: l’impossibilità di posporre l’atto, determinata dall’attuale ed inevitabile pericolo. In sintesi, il regime di verità del dispositivo giuridico-amministrativo di protezione civile è: il ‘pericolo nomade’ è categorizzato come un inevitabile, diffuso (collettivo) e permanente disastro-catastrofe umano-naturale (comparato perciò de jure a questioni criminali come traffico di droga, mafia, terrorismo), la cui contingenza e dinamica sociale appare categorizzata secondo un principio deterministico, come una ‘reazione a catena’ naturale o una pervasiva volontà criminale-antisociale che può essere solamente spezzata, rimuovendo radicalmente (sgomberando) le sue cause (ambientali-materiali ed umane). Nessuna ordinaria mediazione o trasformazione interna dell’evento è possibile. Ma come può il ‘pericolo nomade’ essere categorizzato e legittimato come un evento inevitabile che causa un’emergenza? La condizione di possibilità di tale ordine del discorso è proprio la definizione di rom e sinti come collettività causante la loro medesima pericolosità, come un elemento inscritto nella loro etnia e ‘natura’ psico-sociale. Di qui un’evidenza: Rom e Sinti sono ancora definiti e gestiti come un problema sociale permanente, in una condizione d’eccezione tra destino e carattere.
Bibliografia essenziale per approfondire
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Bezzecchi G., Pagani M., Vitale T., I rom e l’azione pubblica, Nicola Teti editore, Milano, 2008.
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Bravi L., Altre tracce sul sentiero per Auschwitz. Il genocidio dei Rom sotto il Terzo Reich, CISU, Roma, 2002.
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Brunello P. (a cura di), L’ urbanistica del disprezzo : campi Rom e società italiana, Roma, Manifestolibri,1996.
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Piasere L., I rom d’Europa. Una storia moderna, Roma – Bari, Laterza, 2004.
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Piasere, L., Un mondo di mondi: antropologia delle culture rom, Napoli, L’ancora del mediterraneo, 1999.
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Sigona N., Figli del ghetto: gli italiani, i campi nomadi e l’invenzione degli zingari, Nonluoghi, Civezzano, 2002.
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Vitale T., Etnografia degli sgomberi di un insediamento rom a Milano. L’ipotesi di una politica locale eugenetica, in Mondi migranti. Rivista di studi e ricerche sulle migrazioni internazionali, n.4 (1/08), 2008.
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