Gelli, Gaber e l’Italia peggiore
[Articolo di Gianfranco Callieri e Riccardo Lenzi]
Una sgradevole sensazione ci ha infastiditi sfogliando i giornali di oggi, giovedì 17 dicembre 2015, mentre a Pistoia si svolgevano le esequie del “signor P2”. Così veniva definito Gelli nel titolo di un’intervista esclusiva apparsa sul Corriere della Sera domenica 5 ottobre 1980: poco dopo la strage alla stazione di Bologna, poco prima della scoperta di un elenco, incompleto, di iscritti alla loggia segreta denominata “Propaganda 2”. In quell’intervista si anticipavano i contenuti del progetto politico piduista, quel “Piano di Rinascita Democratica” che nel 1982 sarà ritrovato nel doppiofondo di una valigia sequestrata alla figlia del materassaio toscano. Si scoprirà che anche l’intervistatore, Maurizio Costanzo, apparteneva a quella congrega massonica ed anticomunista, legata al Grande Oriente d’Italia (alias Palazzo Giustiniani). Ne facevano parte anche l’editore Angelo Rizzoli e l’amministratore delegato Bruno Tassan Din, allora timonieri del prestigioso quotidiano milanese. Altro che misteri: che il progetto piduista fosse pericoloso e quali fossero i suoi esecutori fu evidente fin dai primi anni ’80. Lo studioso abruzzese Sergio Turone lo scrisse in un libro-inchiesta sulla corruzione in Italia pubblicato da Laterza nel 1984 (oggi purtroppo fuori catalogo): «Per realizzare il suo disegno presidenzialista, Gelli puntava soprattutto su un giornale (il Corriere della Sera) e su due uomini: Giulio Andreotti e Bettino Craxi». Ancora più illuminanti e dettagliate, per chi avesse la pazienza di guardarsele su YouTube, le cinque puntate dell’inchiesta televisiva “P2 story”, condotta per la Rai (!) nel 1985 da Giuseppe Ferrara, su richiesta della commissione Anselmi.
Tornando all’odierna rassegna stampa, si ha invece l’impressione che la maggioranza dei commentatori mostrino una certa fretta di tumulare, assieme alla bara, molte delle documentatissime vicissitudini che qualificano la biografia del defunto.
Un esempio. E’ il 13 gennaio 1981 quando su un treno viene rinvenuto un borsone contenente armi, esplosivo (identico a quello usato il 2 agosto 1980 a Bologna), due biglietti aerei per Parigi e Monaco di Baviera, giornali francesi e tedeschi. Gli inquirenti, dopo mesi di accertamenti, scopriranno che questo ritrovamento è in realtà un’operazione di depistaggio denominata “Terrore sui treni”, organizzata dai vertici del Sismi (servizio segreto militare) e della P2: distrarre i magistrati con una fantomatica pista internazionale, distogliendo la loro attenzione dagli ambienti del neofascismo italiano. Si scoprirà anche che quell’azione depistatrice era stata organizzata PRIMA della strage alla stazione. Il che rende quanto meno plausibile, se non addirittura logico, che Licio Gelli sia stato qualcosa di più di un burattinaio e qualcosa di peggio di un depistatore: come si fa ad organizzare il sabotaggio dell’indagine su una strage che deve ancora accadere, senza esserne complici o mandanti? Ai magistrati di oggi, se ne avranno la volontà e il coraggio, l’ardua sentenza. In compenso sappiamo che la P2 istigò alcuni terroristi neofascisti toscani a compiere la strage sul treno Italicus: questa verità sta scritta non in una sentenza, ma nella relazione finale della commissione Anselmi, testo approvato ufficialmente dal Parlamento italiano nel lontano 1986. Dimenticato per lunghi anni, quel testo è oggi consultabile anche on line, sul sito fontitaliarepubblicana.it.
Nel frattempo il compito dei mezzi di informazione dovrebbe essere quello di raccontare il molto che si sa delle vicende che hanno visto Licio Gelli protagonista e/o comprimario, anziché abusare delle parole “misteri” e “segreti”. Non se ne adontino gli amici giornalisti, ma abbiamo ben presente con quale velocità sia stata liquidata la sentenza dello scorso luglio che ha condannato due tra i responsabili della strage di Piazza della Loggia (Maurizio Tramonte e Carlo Maria Maggi). Quella sentenza dimostra, se mai ce ne fosse bisogno, che le responsabilità mancanti sono sempre ricostruibili. Anche dopo più di 40 anni. La morte dei protagonisti non può mai essere un alibi, né per la magistratura né per gli storici. Nemmeno per i giornalisti. Per tutti dovrebbe valere il monito di Tina Anselmi: «La verità possono cercarla solo quelli che hanno la capacità di sopportarla». Massimo Carminati e Maurizio Abbatino, per esempio, potrebbero essere fonti interessanti per tutte e tre le suddette categorie professionali.
In ogni caso, non c’è bisogno di aspettare che venga dato un nome ai mandanti per sapere che le stragi indiscriminate, in Italia, le hanno fatte i fascisti e/o le mafie (con esplosivo militare targato Nato). Questo davvero non è un mistero. Lo stesso Gelli, oltre alle macerie di quella “democrazia incompiuta” di cui parlava Aldo Moro, ci ha lasciato un sintetico ma cristallino profilo autobiografico: «Sono nato sotto il fascismo, ho studiato col fascismo, ho combattuto per il fascismo, sono fascista e morirò fascista». E pensare che qualcuno voleva togliere l’aggettivo “fascista” dalla lapide che ricorda la strage alla stazione di Bologna.

Nella seconda metà degli anni ’70, il milanese Giorgio Gaberščik (dal cognome triestino del padre), noto al pubblico come Giorgio Gaber, non è più il “corsaro” abbinato all’amico Enzo Jannacci, il primogenitore (assieme al conterraneo Adriano Celentano) del rock and roll all’italiana, il collega di Mina, l’interprete di brani scritti da Virgilio Savona del Quartetto Cetra, il volto di numerosi caroselli pubblicitari o il cantante stralunato e “malincomico” di surreali vignette di vita ai margini della periferia meneghina come La ballata del Cerutti o Trani a gogò. Dal 1970, rinunciando al successo televisivo, Gaber ha infatti scelto la strada di quello che lui e il suo co-autore Sandro Luporini chiamano «teatro-canzone», spettacoli a tema fatti di monologhi, racconti e maratone verbali, nonché intervallati da canzoni su argomenti di attualità, per riflettere assieme al pubblico sui cambiamenti, o sui regressi, della società italiana e dei suoi cittadini.
Nel 1978, in concomitanza con le registrazioni, svoltesi il 18 ottobre al Teatro Duse di Bologna, dello spettacolo Polli d’allevamento (controverso atto d’accusa contro le velleità di certe frange della contestazione giovanile, con arrangiamenti di Franco Battiato e Giusto Pio), l’artista, ancora infastidito dalla retorica e dall’ipocrisia in cui ha visto annegare i funerali di Aldo Moro, scrive un lunghissimo brano dove fustiga senza pietà tutti i politici, gli aspetti del costume e le sfere del corpo sociale colpevoli di allargare a dismisura la «macchia nera» dello stato italiano. Per ammissione di Gaber, Io se fossi Dio è uno sfogo personale, caustico, tagliente, sferzante. Nonostante la sua etichetta discografica – la Carosello – gli abbia sempre garantito ampia libertà creativa, il testo del pezzo risulta troppo controverso anche per loro: preoccupati per un eventuale sequestro, chiedono infatti al cantante di ometterla dall’abum in procinto di essere pubblicato (Pressione bassa). Gaber però non demorde e, due anni dopo, trova un inaspettato sbocco editoriale nella piccola F1 Team di Sergio De Gennaro, nota per alcuni singoli di successo in ambito italo-disco. E difatti, nel novembre del 1980, Io se fossi Dio esce proprio in formato dodici pollici, come i mix da discoteca, anche se con il luccicare delle palle stroboscopiche condivide davvero poco.
Giorgio Gaber, sulla falsariga di Cecco Angiolieri, usa il brano alla stregua di una secchiata di veleno con cui travolgere tutti. Ma proprio tutti: gli ipocriti, i farisei, i buoni samaritani a ore, il sensazionalismo della stampa, l’integralismo concettuale degli adolescenti, il conformismo della sinistra, il bigottismo e il doppiogiochismo dei politici (comunisti, socialisti, democristiani e radicali). In un diluvio di bile e parolacce, Gaber grida: «Io se fossi Dio / quel Dio di cui ho bisogno come di un miraggio / c’avrei ancora il coraggio di continuare a dire / che Aldo Moro insieme a tutta la Democrazia cristiana / è il responsabile maggiore / di vent’anni di cancrena italiana», con una schiettezza oggi, in tempi in cui ogni morte illustre diventa un generatore di cordoglio automatico e unanime, letteralmente impensabile. Sembra una cosa da poco, vista oggi, ma negli anni ’70 versi come «un politico qualunque / se gli ha sparato un brigatista / diventa “l’unico statista”» possono condurre dritti alla galera. Incurante del rischio, Gaber irride i radicali, domandandosi quando arriverà un referendum su dove debbano pisciare i cani, sputa addosso ai socialisti, tacciati di «schifosa ambiguità», e alle loro «spensierate alleanze» (con una certa dose di preveggenza, dacché il decennio successivo segnerà l’apoteosi dei maneggi del cosiddetto Pentapartito), e bastona senza pietà le Brigate Rosse che, uccidendo carabinieri e poliziotti, hanno rafforzato movimenti di simpatia e di solidarietà verso lo Stato loro avversario.
Mossi dallo sdegno per il vilipendio arrecato da Gaber a tutta la categoria, i giornalisti boicottano il disco, a cui toccherà circolare in forma semi-clandestina fino a scomparire del tutto. L’artista riprende la canzone – «un’invettiva contro la stupidità dilagante», ipse dixit – in altri spettacoli, modificandola in senso comico o sforbiciandone alcune strofe e inserendone altre (per esempio, nel 1991, alla vigilia di Mani Pulite, un lungimirante attacco al protagonismo di certa magistratura), ma la forza dirompente del suo monologo in crescendo non cambia, perché, purtroppo, non cambia l’Italia, sempre stagnante nelle solite acque sporche e grigie. Dopo la morte di Licio Gelli, al quale Gaber consigliava di «presentarsi nelle liste del partito radicale» (in L’abitudine, 1985) rammaricandosi di come, nella vita, ci si abituasse prima o poi a tutto, viene proprio da ripensare a questi versi, dal sapore quasi pasoliniano: «Ecco la differenza che c’è tra noi e “gli innominabili”: / Di noi posso parlare perché so chi siamo, / E forse facciamo più schifo che spavento. / Di fronte al terrorismo o a chi si uccide c’è solo lo sgomento». Per domandarsi una buona volta se gli innominabili siano sempre gli altri – i politici, i famigerati depistatori, i complottisti, gli apparati dello stato devianti e deviati – oppure noi, noi cittadini, di fronte a ogni ferita della trasparenza repubblicana in fondo sonnacchiosi e, tutto sommato, drammaticamente apatici.